Dell’onorario medico
“Non riesco a capire, lo confesso, perché un medico debba avere guadagni multimilionari. Perché la sua capacità deve per forza tradursi in monetizzazione…Per una visita possono bastare 150 mila lire”.
Non vedo perché non si potesse concordare con questa affermazione del Ministro della Sanità Bindi (Corriere della Sera 7 febbraio 1999), che di certo rimandava ad una missione e ad un valore più alto dell’opera del medico.
Per il 2006, sappiamo quanto sarebbe giusto l’ onorario di una visita per il Ministro Turco (ed il suo collega Ministro Bersani, vedi DLgs 223/2006): pagabili in contanti, 99 euro, anche se l’ attuale approccio alla questione della libera professione del medico fa dire all’odierno Ministro della Salute “non esiste, che un manager FIAT alle cinque del pomeriggio vada a lavorare alla Toyota” (Corriere della Sera 8 agosto 2006).
Così posta la questione, non va disconosciuto a chi consideri odiosi gli interventi autoritativi del Ministero in materia di normative di legge il diritto di chiedersi se per il Ministro la libera professione dei medici dipendenti rappresenti una libertà, un diritto o, piuttosto, un peccato grave, con tendenza a divenire “mortale” per la continuità stessa del rapporto di lavoro dipendente, se la professione esercitata è quella “extramuraria” o fors’anche “intramuraria”. Sembrano totalmente rovesciarsi i significati dellalibertà professionale come espressione della libertà di iniziativa economica e dell’ autonomia del professionista e, nel caso in cui l’ attività sia esercitata in forma di lavoro dipendente, delle disposizioni che la regolano, che devono assicurare l’autonomia del professionista (rispettivamente DLgs 30/2006 e Legge 43/2006; senza entrare in merito alla Direttiva UE, la cosiddetta Bolkestein).
Ma non si vuole entrare qui in merito legislativo.
Il legame tra dipendenza, libera professione ed emolumenti del medico è assai più stringente e costitutivo dell’ operare medico di quanto possa apparire da momenti legislativi cangianti come i governi. Infatti un medico dipendente, semplice esecutore di “mansioni” approntate da una Azienda sanitaria, non potrà che adattarsi o “accontentarsi” di un modesto stipendio mensile.
Contrariamente allo scopo della più precisa consapevolezza ed attenzione ai costi di un iter diagnostico e di terapie con evidenze scientifiche provate – sempre che sia scontato il saper fare la cosa giusta nel modo giusto –, la mansione di un siffatto medico potrebbe ridursi alla ricerca di “guadagno” da prestazioni per la sua Azienda, come nel caso dei DRG nell’ospedalizzazione, o, viceversa, in un “controllo” della spesa. Ben diversa è la figura storica del medico libero-professionista: libero e professionista sia nell’ospedalità che nel territorio, sia nel sistema pubblico o accreditato, o nel privato puro. Il comportamento del medico artifex nell’esercizio della propria ars è ben delineato fin dall’Antichità; forse meno considerata è la valorizzazione dell’attività intellettuale.
E’ stato ben descritto (Charles Péguy, «Il denaro». Ediz. Lavoro, Roma 1990), come l’attività intellettuale non sia più come nell’Antichità la maniera in cui si esplica il libero talento dell’uomo, né si configuri come nella società del Medio Evo nelle arti liberali, né ancora come nell’Età Moderna si incarna nelle cosiddette libere professioni.
Il lavoro intellettuale è travail désintéressé non direttamente al servizio del mantenimento fisico di chi lo esercita, ma al servizio del bisogno di bellezza, di scienza, di sapienza, ecc., nel quale a pieno titolo deve essere inscritta l’opera del medico.
Questa opera peraltro, ci ricorda ancora Péguy, deve essere intesa e vissuta totalmente nella tensione del travail bien fait o nella più matura ouvrage bien fait che risolve l’antico antagonismo tra il “lavoro manuale” ed il “lavoro intellettuale”, laddove solo il primo poteva apparire come lavoro vero e proprio, perché sempre soggetto alla coattività delle leggi economiche, ed il secondo libero di esprimersi al di fuori di ogni vincolo di necessità: l’opera di chi lavora – manuale o intellettuale è lo stesso – è ricca di “valore d’uso” perché diretta all’intera comunità civile e dunque deve essere ben fatta “spinta fino alla perfezione, compatta nell’insieme, compatta nel più minuto dettaglio…coltivata e perseguita sino allo scrupolo estremo”.
È così del tutto comprensibile che l’opera del medico rientri nell’esercizio di una professione a forte connotazione personale perché il suo lavoro implica doti e lavoro della persona. In essa tanto è importante la formazione scientifica e l’esperienza personale, tanto è peculiare il concetto di retribuzione intesa non semplicemente come compenso per una prestazione, ma come il mezzo con cui la società riconosce il suo debito di gratitudine verso il medico (si ricordi la derivazione del termine “onorario” da honor).
Certo, già Plinio il Vecchio poteva criticare gli eccessi ancora di una attualità sorprendente: “la medicina è divenuta la più lucrosa di tutte le arti, applica metodi di cura bizzarri e astrusi rinnegando la natura, progredisce a spese dei malati, talvolta dei morti; e questo tra l’indifferenza generale anzi con la complicità di tutti”.
E Celso poteva polemizzare con quei colleghi che “per sete di guadagno cercano di procurarsi vasta clientela e per il troppo lavoro non sono in grado di assistere con la dovuta attenzione i singoli pazienti, finendo così per ricorrere a provvedimenti di ordine generale, validi per tutti…cioè per nessuno”. E Galeno sostenesse nei suoi scritti la necessità che un buon medico non deve essere avido di denaro.
È stato chiesto infatti, ripetutamente in questi tristi anni di sfacelo della società italiana da cui anche la classe medica non è stata capace di esimersi, che i medici veri, coloro che vivono la loro “vocazione”, si decidano essi stessi autonomamente almeno a battere il loro pugno sul tavolo contro colleghi – purtroppo non pochi – che si sono fatti “mercenari”.
Non è forse mercato che per essere ricoverati in ospedale, o ricoverati a migliori condizioni, si debba “passare” la visita privata del “Signor Primario” per ottenere il posto nei “suoi” letti ? Non è forse mercato, dallo specialista, pagare una cifra per la prestazione, ma maggiorata se si vuole la ricevuta? Non è forse mercato dover pagare impropriamente una visita dal proprio medico di famiglia (càpita)?
Non è forse mercato essere sottoposti ad un inutile intervento chirurgico che serve unicamente al guadagno di chi opera, dell’Azienda in cui si opera, o di entrambi?
Qui siamo di fronte ad una concezione sbagliata dell’onorario del medico e del medico in quanto uomo. Il dettato ippocratico metteva in evidenza una delle virtù fondamentali del medico, il senso della misura: “Ti esorto a non essere troppo esigente nel richiedere l’onorario se non per procurarti i mezzi di soddisfare la tua bramosia di istruirti sempre di più…Occorrendo, cura i malati gratuitamente e preferisci il ricordo della riconoscenza al vantaggio del momento. Ove sia il caso dà anche del tuo soprattutto al pellegrino e al povero. Rammenta che se è presente l’amore per l’uomo è pure presente l’amore per l’arte”.
Questa bellissima lettura del medico giusto da parte della laica cultura greco-latina, ha trovato poi conferma e comprensione nella medicina cristiana.
A voler citare un solo caso, di medico e di Santo nella stessa persona e dei nostri tempi, San Giuseppe Moscati – valente medico e professore di medicina all’Università di Napoli –, egli ci è concretamente di esempio in quella linea di comportamento già insegnata da Ippocrate, ma comprensiva della complessità umana.
Che si tratti di curare uomini celebri come il tenore Enrico Caruso o tanto più spesso persone povere, per Moscati era normale interessarsi all’onorario non più di tanto, risolvendo nel migliore dei modi la cosa: faceva trovare una banconota nascosta nel foglio di diagnosi ripiegato o sotto il cuscino del bisognoso; ai benestanti, detto con le sue parole “chi ha metta, chi non ha prenda”.
Visitare gratis pazienti bisognosi o, perché no, parenti di colleghi o semplicemente amici, come sempre ha potuto fare il medico ospedaliero fino a un recente passato, non solo non è più possibile, anzi è pericoloso per il medico che per “scelta libero professionale” lo facesse durante momenti di calma dell’ attività. Sono cronaca ormai i casi del genere, per richiami o licenziamenti del medico (curiosamente, al contrario, il medico che volesse tenere una tariffa libero professionale bassa all’ interno della sua Azienda, altrettanto non è libero dovendosi adeguare al tariffario maggiore determinato dalla sua amministrazione).
Andando più in profondità, il mestiere di medico non inteso come professione rientra anche in una concezione sbagliata dell’uomo “che non tiene conto della fragilità stessa dell’uomo: perché l’onorario è rendere onore e in un certo senso un atto di compassione della fragilità, dell’ambizione, dell’orgoglio”. Pensare che l’uomo-medico non abbia anch’egli in sé queste dimensioni, è un’idea sbagliata, distruttiva.
L’errore del marxismo, e oggi di ideologismi analoghi, è di aver avuto un’idea sbagliata di uomo, come l’errore del capitalismo è di contare unicamente sui suoi difetti.
In realtà, non avere un’idea professionale dell’esercizio dell’attività medica vuol dire non avere un’idea adeguata di uomo, cioè non pensare all’uomo come fatto certamente di doti e di istinti ideali ma ferito, con dentro un difetto tale per cui se in qualche modo non gli si riconosce quest’onore, non lo si incentiva; è molto difficile che operi bene. E questo vale per tutti, cristiani e non cristiani, perché la natura umana è uguale per tutti. Perché non è normale essere trattati bene, e per quella fragilità dell’uomo non è scontato trattar bene, far i conti con l’ostilità, con il problema della libertà: un insieme del rendere onore a te e un atto di compassione all’umanità.
L’onorario infatti, o il regalo, ha dentro di sé una sottile ironia nei confronti di sé e nei confronti di colui che paghi: infatti, da un lato, richiede una grande umiltà per essere accettato, perché la posizione potrebbe essere “lei non mi deve niente, dovere”, che è il massimo della presunzione; dall’ altro, “come ! ti faccio un regalo e non lo prendi ?”.
Aristotele infatti contrapponeva al “medico degli schiavi”, che tratta male il paziente, il “medico degli uomini liberi” che con il paziente dialoga, gli spiega la terapia e lo coinvolge. Un ultimo aspetto, non secondario nella attuale condizione del medico in Italia, va ricordato.
Nelle trasformazioni avvenute in Sanità, per lo meno nel sistema delle Aziende sanitarie, siamo probabilmente arrivati a quel tipo di situazione che nel sistema di carriera aziendale crede di dare soddisfazione con l’assunzione di ruolo (di nuovo, “Signor Primario!”). E forse di questa soddisfazione (o di un ideologismo?) si avvale la posizione di un illustre collega di altro Ordine lombardo che dalla sua autorevole tribuna (Corriere della Sera) chiede l’abolizione completa dell’attività libero professionale per “tutti” i medici ospedalieri.
Ora, in un sistema sanitario come l’italiano, in via di “impoverimento”, ci si potrebbe chiedere se a chi viene proposto di diventare da colonnello a generale, però guadagnando meno, non converrebbe ritornare capitano guadagnando di più, come diverse soluzioni extra-moenia assicurano. La domanda è naturalmente più complessa perché dovrebbe comprendere anche “quanto meno?” e tutta la “dinamica della responsabilità”.
Anche al medico può interessare di più il piacere del potere che il piacere di svolgere e portare a termine il proprio lavoro ben retribuito: l’“opera ben fatta” e a “giusto onorario”, posizione che certo meglio può raggiungere il cuore del rapporto medico-paziente, in cui è il paziente che sceglie il medico, e non il medico che sceglie i pazienti per la sua Azienda. In altra ottica, non paia fuori luogo ricorrere infine alle parole di Benedetto XVI che ci ricorda: “Per quanto riguarda il servizio che le persone svolgono per i sofferenti, occorre innanzitutto la competenza professionale: i soccorritori devono essere formati in modo da saper fare la cosa giusta nel modo giusto, assumendo poi l’ impegno del proseguimento della cura. La competenza professionale è una prima fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’ attenzione del cuore” (Benedetto XVI, Enciclica «Deus Caritas Est», 2006 liberamente)
Tratto da: Bollettino Ordine Provinciale Medici Chirurghi e Odontoiatri –MILANO Anno LVX, n. 4, pag. 35-7 Ottobre-Dicembre 2006
Autore – Dott. Giovanni B. Agus Ordinario di Chirurgia vascolare dell’ Università degli Studi di Milano